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Svelando il teatro giapponese Noh: tradizioni antiche, emozioni eterne

Di Michela Rubino e Edoardo Elettri

«Un fiore è un’impressione meravigliosa che nasce nel cuore di chi guarda».

 

Queste parole fluttuavano nei pensieri di chi è stato spettatore dell’evento tenutosi venerdì 15 marzo al Polo Zanotto. L’incontro dedicato al teatro giapponese Noh, che vedeva la presenza del maestro Haruhisa Kawamura, si è rivelato ricco di insegnamenti, non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello culturale e morale.

 

Non capita tutti i giorni di immergersi in tradizioni così lontane e magiche e l’Università di Verona ha colto al volo questa opportunità. Infatti, tramite l’amicizia tra il docente di slavistica Stefano Aloe e il professore della Sophia University di Tokyo, Shin’ichi Murata, il nostro ateneo ha inaugurato la tournée italiana dell’ospite nipponico Kawamura.

 

La serata si è aperta con una lezione teorica del professor Murata che, attraverso esemplificazioni storico-culturali, ha predisposto il pubblico ad apprezzare appieno la performance del maestro Kawamura. È proseguita con una tavola rotonda in cui sono intervenuti il professore Aloe, il regista veronese Matteo Spiazzi e il professore di discipline dello spettacolo Nicola Pasqualicchio. Il dibattito si è concentrato sulle analogie e le differenze tra il teatro orientale e quello occidentale. In particolar modo, il dottor Spiazzi ha presentato alcune maschere della tradizione italiana, focalizzandosi sul potere che esercitano sul corpo dell’attore e soprattutto sulle emozioni dello spettatore. Mentre il docente Pasqualicchio ha sottolineato l’importanza dell’arte orientale e l’influenza che questa ha avuto nei confronti del modernismo europeo del primo Novecento.

Il teatro Noh, fondato nel XIV secolo dall’attore e drammaturgo Zeami, è ancora oggi vivente e alla costante ricerca della bellezza in tutte le sue sfaccettature. Nonostante esso abbia subito una parziale evoluzione, gli attori professionisti si sono impegnati nel tempo a conservare alcuni tratti caratteristici dell’arte antica. La performance del protagonista – definito shite – si fonda su tre pilastri: monomane (mimesi), l’imitazione della natura delle cose, yugen (grazia), l’attrazione invisibile in superficie ma insita nell’armonia tra i vari aspetti uditivi e visivi della scena, e hana, la bellezza simbolica ravvisabile nel fiore. Quest’ultimo è da intendersi come una pura dimostrazione del talento, quel momento in cui l’attore raggiunge il suo massimo livello di espressione emotiva o tecnica ed eccelle nella sua arte.

 

Prima di diventare soggetto attivo, l’attore ideale deve fondersi psicologicamente con il personaggio da interpretare al fine di porre lo spettatore davanti alla verità interiore della vita. Questo è lo scopo dell’arte.

Zeami non si è limitato a fondare questa disciplina, ma ne ha definito le regole e i limiti nel libro Lo spirito del fiore. Questi dettami sono rimasti invariati nei secoli e tutt’oggi rispettati. Il maestro Kawamura ha tenuto una spiegazione-dimostrazione sui tre ruoli che si possono incontrare sul palcoscenico: il vecchio, che spesso simboleggia il demone, la donna e il guerriero. A ognuno di essi corrispondono specifiche maschere e precisi movimenti, che sostituiscono le parole e aiutano lo spettatore a comprendere e seguire il racconto. L’atto recitativo, sebbene limitato da abiti, maschere e gesti codificati, cela un potere che porta alla realizzazione di un’esibizione a noi poco conosciuta, risultando altrettanto penetrante e libero.

 

Il teatro Noh e il fiore diventano uno lo specchio dell’altro. Così come l’arte teatrale che per sua natura deve essere costantemente messa in scena e interpretata, anche il fiore nella sua fragilità muore e rinasce. In questo modo entrambi racchiudono al loro interno la vera essenza della bellezza: quel singolo istante che incarna la vanità e l’illusorietà della vita e che è meraviglia.

Si alza il sipario sull’antica scena, dove le maschere raccontano storie che solo gli occhi dell’anima possono comprendere. Il passato si fonde con il presente, il cuore trova la sua voce nel mistero e, tra gesti lenti e note sospese, si dipana il filo della vita e dell’oltre. Tra effimero ed eterno, visibile e invisibile, lo shite è pronto per esibirsi. È un’anima in movimento: ogni suo gesto stilizzato e misurato è riflesso della caducità del tempo e della costante trasformazione della vita. Ci si perde nell’abisso della sua essenza e, nell’abbraccio di un’arte millenaria, si risveglia la bellezza dell’eternità. Il confine tra mondo materiale e mondo spirituale si dissolve sempre più, aprendo la mente a dimensioni che vanno oltre una mera comprensione razionale. Così cala il sipario: lo spettatore rimane sospeso nell’incanto, mentre il teatro Noh rivela la sua magia eterna.

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